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Donna sottomessa, violenze, regolamenti di conti: il sistema criminale rom che ha ucciso Duccio Dini

Mia moglie è di mia proprietà e posso farla anche prostituire per 20 euro per sfamare i miei figli”. Una frase allucinante, pronunciata da Bajram Rufat, in aula al processo per l’uccisione di Duccio Dini, il giovane fiorentino travolto ad un semaforo nel corso di un folle inseguimento a Firenze, nei pressi di un campo nomadi.

Una testimonianza, riportata sui quotidiani di oggi, che fa chiarezza sulle reali cause della tragica uccisione del 29enne.

Secondo la sua versione, tutto sarebbe nato da un “giuramento di fedeltà” che lo stesso Rufat avrebbe chiesto alla moglie per “consentirle, dopo due anni, di tornare a casa“, come ha raccontato in aula l’imputato.

Un atto che fu filmato con un telefonino e che mandò su tutte le furie la famiglia di lei, innescando la furia che portò all’inseguimento. La moglie tornò al campo rom e poi fu mandata in Belgio. Poi uno scontro al campo del Poderaccio, dove Rufat, sempre secondo quanto ha raccontato, colpì con un pugno il suocero davanti a tutti gli abitanti.

“Capii di aver firmato la mia condanna a morte“, ha sottolineato in aula il testimone. Così il tragico inseguimento iniziato nel parcheggio del supermercato di via Canova: “Una Lancia Libra mi bloccò, sopra riconobbi mio cognato e mia moglie che avrebbero avvisato gli altri”.

“Corsi per non farmi raggiungere. Alla Lancia si aggiunse una Volvo che mi speronò tre volte“. Ad un semaforo il tamponamento che lo fece schiantare contro un marciapiede”. Rimase ferito e finì in ospedale per oltre un mese.

“Scesi dalla vettura e mi rifugiai prima su un albero, poi dietro una siepe. Ma non capii che era stato investito anche un ragazzo“. Ora in sette, tutti rom, sono finiti a processo.

Ma quel ragazzo, che stava andando a lavorare con il suo scooter, ora non c’è più.